Dopo che tutto sembra essere stato esplorato, venduto e acquistato, la performance art per alcuni diventa l’unico modo per proteggere l’arte dalla mercificazione.
A partire dagli anni ’60, gli artisti cominciano a mettere a fuoco le relazioni con il pubblico, perlustrando il rapporto tra i limiti del proprio corpo e le possibilità della mente, dentro uno spazio ed un tempo reali in un evento che si vive ma che non può essere ripetuto, bloccato e neppure comprato.
Il corpo diventa protagonista con la sua materia organica, acquistando significati estetici e simbolici.
Su questa strada, provocatorio e passionale diventa il sodalizio tra Ulay (Solingen, 30 novembre 1943) e Marina Abramovic (Belgrado, 30 novembre 1946), una coppia storica dell’arte contemporanea.
Conosciutisi ad Amsterdam nel 1976 nella Galleria de Appel, avevano provenienze diversissime.
Ulay era un giovane uomo ribelle, con la barba ed i capelli lunghi, ancora in lotta con i fantasmi del padre che era stato un gerarca nazista mentre Marina era figlia di partigiani e nipote di un patriarca della Chiesa ortodossa, proclamato santo dopo la morte.
Fu amore a prima vista.
Tra le performances più note della liaison, ricorderei Death Itself (1977). Per testare la capacità dell’individuo di assorbire e distruggere la vita altrui, uniscono le labbra e respirano l’aria espulsa dall’altro fino a terminare l’ossigeno a disposizione. Una prestazione estrema in cui, dopo solo 17 minuti, sono a terra privi di sensi.
Interessante anche Relation in time (1977), dove a Bologna seduti di spalle per 16 lunghe ore, legati per i capelli, li troviamo ad inseguire i limiti delle proprie possibilità mentali e fisiche.
Come non ricordare Imponderalia (1977), realizzata sempre a Bologna nella galleria GAM. Completamente nudi, uno di fronte all’altro, sono appoggiati sullo stipite dell’ingresso principale del museo, provocando imbarazzo nel visitatore che deve passare tra i loro corpi. A riguardarla ora, la performance è interessante per coglierne l’audacia della provocazione e, a distanza di oltre quarant’anni, le differenti modalità di reazione umana.
https://www.youtube.com/watch?v=UDM7WJxbXNY&feature=emb_title
Nel 1988 Marina e Ulay decidono di lasciarsi, ma in un modo speciale. Progettano The Lovers, un’infinita camminata di 2500 km lungo la Muraglia Cinese, partendo dai due estremi opposti per poi incontrarsi a metà strada. Novanta giorni di cammino che significano molto altro: una meditazione, una metamorfosi esistenziale, un carico di nuove esperienze per ritrovarsi alla fine rinnovati dal tempo, dalla fatica e dagli imprevisti. Durante il viaggio Ulay si innamora dell’interprete conosciuta in Cina e la sposa.
Struggente, infine, nel 2010, l’ultimo contatto al MoMA di New York, anche per l’epilogo del loro rapporto (poco dopo Ulay porterà Marina in tribunale fino poi a morire nel marzo di quest’anno).
Marina è impegnata nella performance The Artist is Present, in cui immobile appare seduta davanti a un tavolo, aspettando i visitatori che si accomodano uno alla volta di fronte a lei. Otto ore al giorno, 10 il venerdì, per tre mesi interi. Tra i 1500 visitatori che si siedono, un giorno compare anche Ulay.
Gli occhi di Marina si gonfiano di lacrime. In realtà non è facile per entrambi.
Guardatelo, è emozionante: